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PRESUNTO TENTATIVO DI UXORICIDIO

Scritto da Stella Maggi

Siamo ancora qui, per l’ennesima volta, a chiedere al Primo Ministro Matteo Renzi di provvedere a nominare una guida politica che sia a capo del Dipartimento per le Pari Opportunità.
Ci sentiamo da lui ignorate in ogni nostro appello e soprattutto non considerate né come rappresentanti della parte più debole della società né come cittadini/e.
Cronache dal Centro Tina

Servono l’empatia e la capacità di ascoltare, la voglia di aiutare e un certo spirito di servizio. “Prima di giudicare un uomo ( o una donna, n.d.r. ) cammina per tre lune nelle sue scarpe”, dice un proverbio degli indiani d’America. Nel Centro per donne violentate e perseguitate da mariti che si ritengono i padroni – per convenzione lo chiameremo Tina – queste piccole norme sono basilari, ma per andare avanti servono anche la collaborazione continua con i servizi sociali e le forze dell’ordine, che lavorano a stretto contatto di gomito con loro. Mancano i contributi, anche minimi, tutto il volontariato del mondo non può andare avanti senza possibilità economiche e anche nuove strutture, nuove case che aiutino le persone in difficoltà a rinascere e a sottrarsi ai loro compagni violenti.
Le storie di Lia ed Elena (nomi inventati per proteggere la loro privacy) raccontano benissimo le difficoltà che vive una donna che vuole lasciare il marito e anche quelle delle operatrici del Centro per proteggerle. Accade tutto in questo agosto 2014, temperature non certo da estate torrida, un mese comunque segnato da orrendi femminicidi e da delitti contro i figli per colpire le madri. Due bambine morte, una in fin di vita, una donna decapitata , le altre uccise in vario modo. Non c’è molto da rallegrarsi, la storia delle donne continua a essere segnata di sangue. E così Lia che ha due bambini di tre e cinque anni e che da sempre subisce violenza fisica e psicologica dal marito decide di chiedere aiuto ai servizi sociali che la accompagnano al Centro Tina. Per lei e per i piccoli si trova immediatamente ospitalità. C’è un posto libero. Non accade tutte le volte, dipende dalla complessità del caso e anche da un pizzico di fortuna. Al primo incontro con la psicologa Lia racconta, tra un mare di lacrime, la sua vita, le violenze sessuali subite dal marito ancor prima del matrimonio, quelle fisiche, le percosse e le umiliazioni inferte anche ai bambini che non hanno mai conosciuto una famiglia serena. Le due donne trovano un punto di contatto, decidono un cammino graduale, giorno dopo giorno, i piccoli vengono assistiti e coccolati dalle altre ospiti del Centro. Due giorni dopo accade qualcosa. Arriva alla struttura un’altra giovane, una ragazza di 22 anni, accompagnata dalle operatrici di una vicina Casa di ospitalità. Denuncia una storia incredibile di abusi da parte del padre e dei fratelli, cade spesso in contraddizione. La direttrice del Centro si riserva di accoglierla se e quando ci sarà un posto libero, ma non riesce a credere in pieno al suo sfogo. E purtroppo ha ragione. Si tratta della sorellastra del marito di Lia che l’ha subito riconosciuta ed è terrorizzata. Si scopre così che l’uomo la sta cercando in tutti i centri della zona, che minaccia le operatrici, che è letteralmente uscito di senno. Lia viene spostata, in segretezza e nel giro di un’ora, in un’altra casa. Possiamo immaginare la sua paura e il trauma dei bambini che in pochi giorni hanno lasciato la loro abitazione, cambiando poi due volte stanza, persone vicine e situazione. Ma non finisce qui. Nel nuovo Centro, durante la notte, intorno alle due, qualcuno inizia a suonare al citofono con rabbia e foga. Le operatrici non sono in grado di capire se si tratti di uomini o donne ma avvertono i carabinieri che, intervenuti repentinamente, mettono in fuga le persone. Lasciano in terra qualcosa. Il giorno dopo i militari consigliano di allontanare la donna dalla regione e da quel Centro, cosa che avviene in gran fretta. Ora Lia è in struttura protetta, lontano da casa, costretta per un periodo, nessuno può sapere quanto, a vivere nascosta e ad aver paura della sua ombra. Non ha commesso nessuna colpa. Deve pagare per il male altrui. Chissà quando potrà dirsi fuori pericolo.
La storia di Elena, ventidue anni e un bambino di pochi mesi, è molto simile. Quando arriva al Centro Tina ha dei segni di violenza sul viso e sulla testa: è l’ultimo regalo del marito che l’ha cacciata di casa dopo averla picchiata. La donna viene accompagnata da alcuni conoscenti preoccupati. Non ha parenti se non il suo compagno e il bambino. La direttrice della struttura la fa portare al Pronto Soccorso dove viene medicata. La prognosi è di dieci giorni, scatta la denuncia di violenza contro l’uomo che l’ha ridotta in quel modo. I carabinieri -che evidentemente già conoscono la situazione – consigliano di trovare per lei un altro Centro, quello è troppo vicino alla sua abitazione. Il marito, nel frattempo, denuncia la scomparsa di Elena e del bambino. La giovane viene immediatamente trasferita in un’altra struttura, ma si dispera e piange, sembra inconsolabile, è allo sbando. Ha perso la fiducia e la sicurezza in se stessa e nell’uomo che credeva la amasse, ha un bambino che non sa come nutrire e proteggere, si sente come una canna al vento. Le psicologhe e le operatrici le sono vicine, dovranno ricucire con lei un rapporto, darle nuove speranze, aiutarla a riscoprire la vita e a trovare un lavoro. E’ così giovane, potrà farcela, scavando anche dentro di sé, trovando le risposte, diventando forte ed autonoma.
Due storie emblematiche in appena dieci giorni e solo al Centro Tina. Due storie che potevano finire malissimo. Lia ed Elena potevano essere uccise dall’uomo che le ha sposate, promettendo amore e sostegno. E’ già successo in questo 2014 a 156 donne. Non deve succedere più, pensiamo e speriamo. Ma sappiamo che accadrà ancora e ancora. Fino a che non ci sarà una vera rivoluzione culturale, un moto di reazione collettivo. Per questo i Centri vanno potenziati, per questo le donne vanno protette e con loro i bambini. Il domani di questi piccoli deve essere diverso. Hanno il diritto di giocare e vivere sereni e sapere che le loro mamme non piangono e non vengono picchiate.

Nel terzo millennio, in un Paese che si considera civile come il nostro, non è una richiesta assurda.