Introduzione
Sono Antonella Faieta, presidente dell’Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa, che dal 1988, da oltre trent’anni si occupa di supportare donne sopravvissute a violenza e i loro bambini. Gestiamo diversi CAV, case rifugio e centri di semi autonomia in diverse città italiane.
Oggi vorrei parlarvi di come ripensare la città con uno sguardo di genere, dal punto di vista della sicurezza, ma anche di accessibilità, inclusione e vera partecipazione.
Non solo sicurezza, ma accessibilità
Quando parliamo di spazio pubblico per le donne, la prima parola che emerge è spesso “sicurezza”. Garantire la sicurezza delle donne è fondamentale, ma non basta quello. Dobbiamo parlare anche di accessibilità.
Uno spazio non sicuro non è solo un luogo dove possiamo subire violenza: è soprattutto un luogo che ci costringe a scegliere se partecipare o meno alla società civile. Se rinunciamo a percorrere una strada di sera, a fermarci in un parco, a usare un mezzo pubblico, non stiamo solo evitando un pericolo: stiamo rinunciando a un pezzo di cittadinanza.
Questa esclusione non è mai neutrale. Non frequentare un parco significa non poter socializzare, non poter portare le figlie e i figli a giocare, non poterci allenare o passeggiare liberamente. Non prendere un autobus la sera tardi significa rinunciare a un lavoro, a un’attività culturale o sociale, a un momento di comunità. Ogni volta che una donna sceglie di non vivere uno spazio pubblico per paura, quell’esclusione diventa un fatto politico: perché equivale a perdere l’opportunità di partecipare a una conversazione, a un incontro, a una parte della vita collettiva che in quello spazio si produce.
Ecco perché non possiamo accontentarci di parlare di “più telecamere, più illuminazione, più controlli”. Non basta rendere uno spazio sorvegliato, bisogna renderlo abitabile, accogliente, vivibile per tutte e tutti. Non garantire accessibilità significa escludere le donne dallo spazio urbano. E se le donne non sono presenti negli spazi pubblici, non solo perdono la libertà di movimento, ma anche la possibilità di partecipare, influenzare e trasformare la società.
Prevenzione, oltre la sicurezza
Garantire misure di sicurezza è sicuramente fondamentale ma non basta. Il risultato è la produzione di una città sorvegliata, non una città vivibile.
La vera prevenzione è culturale: significa insegnare che le donne non devono essere protette come soggetti fragili, ma riconosciute come cittadine attive, parte integrante della vita pubblica. Una città sicura non è quella dove bisogna difendersi, ma quella dove possiamo vivere e non sopravvivere. Dove le donne possono abitare lo spazio pubblico pienamente, senza paura e senza esclusioni.
Barriere all’accesso nella città di Roma per le donne
In molte aree di Roma, la mancanza di spazi pubblici accessibili e sicuri rappresenta una barriera concreta alla libertà di movimento e di partecipazione delle donne. Le aree verdi e i parcheggi sono percepiti come luoghi insicuri, soprattutto dopo il tramonto. Anche gli spazi pubblici “attrezzati” spesso sono mal progettati per accogliere tutta la popolazione: basta pensare al Parco Schuster, vicino alla Basilica di San Paolo. Nonostante sia al centro di un progetto partecipato di inclusività, uno studio dell’Università Roma Tre e della Fondazione Tetrabondi ha evidenziato barriere architettoniche, aree frammentate e recinzioni che isolano gli utenti, rendendolo difficilmente accessibile e poco fruibile soprattutto per bambine e bambini, famiglie e persone con disabilità (Accessibilità e inaccessibilità nello spazio pubblico, Fondazione Tetrabondi, 2024).
Anche gli spazi di accoglienza, come caserme, ospedali, sportelli istituzionali non sono sempre strutturati per accogliere donne che denunciano violenze. Mancano spesso aree dedicate, come sportelli specifici a garantire una risposta a situazioni di violenza.
Inoltre, soprattutto i quartieri periferici sono scarsamente collegati al centro città, dove si concentra la maggior parte delle opportunità di lavoro (Comune di Roma, Roma Capitale – Annuario statistico 2023, 2024). Molte donne dipendono dal trasporto pubblico, spesso inadeguato e poco affidabile, il che rende difficile raggiungere i luoghi di lavoro e rafforza il loro accesso limitato all’occupazione formale. Inoltre le donne tendono a evitare i mezzi pubblici serali preferendo opzioni più costose e private (Spatium Urbis: “Roma Capitale è meno accogliente per le donne”, 2023). Questo rende più difficile conciliare la vita lavorativa, familiare e sociale, amplificando le disuguaglianze e l’esclusione.
A Roma, la carenza di servizi per la prima infanzia nelle zone periferiche limita l’accesso delle donne al lavoro. Senza strutture di prima infanzia a costi sostenibili, molte sono costrette a lavori irregolari o part-time. Questo comporta la cosiddetta “penalità della maternità”, che include tutte quelle penalizzazioni subite dalle madri nel mondo del lavoro (Riaño, Highly skilled migrant and non-migrant women and men: how do differences in quality of employment arise?, 2021).
I CAV come beni relazionali
Telefono Rosa gestisce diversi Centri Antiviolenza e oggi ve li voglio presentare come spazi progettati dalle donne e per le donne. I Centri antiviolenza non sono semplici servizi, né solo rifugi di emergenza: sono beni comuni relazionali (urban commons), aperti a tutte le donne, luoghi dove si produce una cittadinanza nuova e inclusiva (Antonucci et al., I centri antiviolenza come pratica di urban commoning Riflessioni ed esperienze nel contesto italiano e romano, 2024).
I Cav non appartengono a una logica unicamente istituzionale, ma nascono come risposta dal basso, nei contesti urbani spesso più marginalizzati.
Sono beni relazionali perché non si riducono all’erogazione di risorse, ma richiedono un lavoro di coordinamento e mutua collaborazione tra persone, competenze, spazi e strumenti, in costante dialogo.
La metodologia dell’accoglienza è fondata sulla relazione tra donne, utenti e operatrici, sul mutuo riconoscimento, sull’ascolto non giudicante, sulla co-costruzione dei percorsi di rinascita.
Questo approccio restituisce agency alle donne, cioè la capacità di decidere, di autodeterminarsi, e di ricostruire il proprio futuro.
CAV come spazi comuni e di progettazione
I Centri Antiviolenza non sono semplicemente luoghi di accoglienza: sono spazi comuni, dove le donne possono esprimersi liberamente, dialogare e costruire progettualità collettive. A Roma, in contesti urbani spesso segnati dall’assenza di servizi e infrastrutture, i CAV diventano dunque laboratori di innovazione sociale, capaci di anticipare un modello di città più inclusiva. Nei CAV la cura non è solo sostegno, ma un atto politico trasformativo che mostra come società e istituzioni potrebbero organizzarsi in modo diverso.
All’interno dei nostri centri, che comprendono anche case rifugio e spazi di semi-autonomia, non offriamo solo servizi individuali, ma anche gruppi di auto-mutuo-aiuto e laboratori che restituiscono alle donne momenti di comunità, confronto e condivisione. Organizziamo anche workshop dedicati al vivere comune, pensati per rendere possibile la convivenza fra esperienze e storie diverse, ma anche per sperimentare nuove forme di solidarietà e resistenza quotidiana.
Ma i nostri centri non sono solo degli spazi chiusi, sono anche aperti verso l’esterno: con le nostre operatrici, psicologhe e avvocate che lavorano nei CAV, organizziamo eventi pubblici, attività formative e culturali, campagne di sensibilizzazione contro la violenza di genere. Questo garantisce la generazione di un bene e un sapere collettivo che appartiene a tutta la città.
Sono inoltre luoghi di empowerment femminile, perché ogni azione è finalizzata a favorire l’autonomia e l’indipendenza delle donne. Nei CAV si pratica una politica dal basso: l’azione collettiva di donne – utenti e operatrici – influenza la vita pubblica, attraverso percorsi di sensibilizzazione, formazione per gli operatori territoriali e il confronto con le istituzioni, a livello locale e nazionale.
I CAV sono, in questo senso, esempi concreti di spazi sicuri dove le donne possono partecipare, progettare e agire senza paura. Roma ha bisogno di più spazi pubblici che funzionino così: non semplici luoghi di passaggio, ma centri vivi di partecipazione, di dialogo e di azione politica. Investire in questa prospettiva significa trasformare radicalmente la città, in uno spazio che rende possibile una piena cittadinanza delle donne.
Proposte operative
Per trasformare Roma in una città inclusiva per le donne, proponiamo le seguenti soluzioni operative:
- Ripensare i tempi e gli spazi della città. Orari dei servizi e dei trasporti devono dialogare con la vita quotidiana delle persone, in particolare con chi porta il peso del lavoro di cura.
- Osservatori e governance di genere. Occorre misurare, monitorare e valutare i progetti urbani con dati disaggregati per genere (Poli & Belingradi, Progettare città e territori con sguardo di genere, 2024). Le donne devono partecipare attivamente a tale monitoraggio, attraverso osservatori cittadini permanenti.
- Formazione e cultura. Urbanisti, amministratori e tecnici devono essere formati allo sguardo di genere: progettare la città significa progettare la vita quotidiana, e la prospettiva femminile deve essere parte strutturale delle scelte.
Conclusione
Roma può scegliere di essere una città che include, una città in cui le donne possano vivere pienamente, muoversi liberamente, e partecipare alla vita politica e sociale come protagoniste. E ricordiamolo: quando una città è progettata per chi porta con sé più ostacoli – donne, bambine e bambini, persone anziane, persone con disabilità, persone migranti – diventa automaticamente più vivibile per l’intera comunità. È la logica della cura che diventa bene comune.
Garantire l’accesso, la sicurezza e la qualità della città per le donne significa rafforzare la democrazia, consolidare la cittadinanza e costruire una società più coesa. E allora la domanda che dobbiamo porci non è solo “come rendere le nostre città più sicure”, ma “quale idea di città vogliamo consegnare alle generazioni che verranno?”.
Per raggiungere questo obiettivo, serve che amministrazioni, associazioni, cittadine e cittadini lavorino insieme, con responsabilità condivisa, con una visione collettiva.
Garantire uno spazio accessibile per le donne non è una concessione, è un investimento politico e culturale che innalza il livello di cittadinanza per tutte e tutti.
Bibliografia
Accessibilità e inaccessibilità nello spazio pubblico. 2024. Fondazione Tetrabondi. https://fondazionetetrabondi.org/blog/parco-inclusivo-universale/accessibilita-e-inaccessibilita-nello-spazio-pubblico?
Antonucci, M. C., Demurtas, P., & Proia, F. (2024). I centri antiviolenza come pratica di urban commoning Riflessioni ed esperienze nel contesto italiano e romano. CONTESTI, 40.
Comune di Roma (2024). Roma Capitale – Annuario statistico 2023. https://www.comune.roma.it/web-resources/cms/documents/Annuario_2023_agg.Giu.2024.pdf
Mordini. R. 2023. Spatium Urbis: “Roma Capitale è meno accogliente per le donne”. City Next. https://citynext.it/2023/12/17/spatium-urbis-roma-capitale-e-meno-accogliente-per-le-donne/
Poli, D., & Belingardi, C. (2024). Progettare città e territori con sguardo di genere. PLANUM, 7, 71-76.
Riaño, Y. (2021). Highly skilled migrant and non-migrant women and men: how do differences in quality of employment arise?. Administrative Sciences, 11(1), 5.